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Papa Francesco, immigrazione e impegno sociale della Chiesa

L’insegnamento di Papa Francesco è contenuto nella cura dei gesti e nella rivoluzione della tenerezza, che si prende cura dei più poveri individuando le necessità del momento presente a partire dai segni dei tempi.


Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.
[Mt 25,40]

DIO NELLA CITTÀ – NUMERO 1, domenica 9 luglio 2016 – L’attuale pontificato si comprende a pieno se riconosciamo la natura semper reformanda della Chiesa.

Questo riconoscimento necessita una attenta analisi del Concilio Vaticano II a partire dal quale il primo Papa latinoamericano trova ispirazione e alimento. Le riforme auspicate e vissute dallo stesso pontefice gesuita non sono sintomi di rotture o di estemporanee trovate, ma di autentici passi per una Chiesa fedele al vangelo.

A tal proposito, una visione errata dell’odierno pontificato lo riduce a papa del sociale. Come se nella Chiesa ci fossero taluni (preti, vescovi e papi) che si occupano anche del sociale e altri meno. Il mutuo rapporto Chiesa-mondo inaugurato dal Concilio invita proprio a vivere la fede nel mondo senza alienarsi in strutture obsolete o spiritualità senza relazione.

I padri conciliari si accorsero che il mondo non andava soltanto condannato ma anche conosciuto e apprezzato: invitarono a superare la frattura tra realtà profana ed economia salvifica scoprendo che Dio già opera nel mondo.

“Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”. (Gaudium et Spes, 4).

La Chiesa quale popolo di Dio, vivendo nel mondo è chiamata a lasciarsi interrogare dagli avvenimenti, dai mutamenti e anche dalle crisi: il tempo dell’attesa del Regno di Dio che la Chiesa vive sulla terra non è un tempo passivo ma tempo che richiede vigilanza e impegno nel mondo. La stessa parola attesa, ad-tendere, richiama l’incontro con qualcuno, il quale si configura come salvezza – più semplicemente come amore, rispetto, dignità, pace e fraternità – se l’abbiamo prima di tutto ricercata e vissuta nella realtà mondana.

La missione della Chiesa: solidarietà ed accoglienza

Stabilisce abilmente padre Chenu: “L’attualità del Vangelo passa infatti attraverso i problemi degli uomini”. Soltanto così la Chiesa diventerà martire nel senso autentico della parola cioè testimone credibile del suo Maestro e del Vangelo. L’impegno e la collaborazione per il mondo non sono attività accessorie per la Chiesa ma fanno parte della sua missione soprattutto quando l’impegno si traduce in una prassi di solidarietà, d’accoglienza e di emancipazione. Come ha sapientemente chiarito il Concilio, il progresso non è sic et simpliciter sinonimo di arricchimento a scapito di altri o mera fama di beni: l’autentico progresso cela una natura trascendentale (J.B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia, 1978, p.119).

La teologia dei segni dei tempi del concilio Vaticano II trova nei richiami e nei gesti del magistero di Papa Francesco ottimo interprete per i nostri giorni. Il richiamo alla Chiesa povera e per i poveri, l’attenzione alla questione ecologica con la pubblicazione nel 2015 della Laudato sì, la cosiddetta enciclica dei gesti cioè la sua vicinanza e la sua premura per i malati, i carcerati e gli scartati e soprattutto l’attenzione alla questione migratoria.

La sua premura verso questa sfida caratterizza per lui un segno dei nostri tempi! Nella sua visita al parlamento europeo il 25 novembre 2014 ebbe a precisare: “Ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca, un umanesimo incentrato sul rispetto della dignità della persona”.

La Chiesa intende offrire un contributo all’edificazione della società, non soltanto reclamare diritti o occupare spazi; e questo contributo è la solidarietà reciproca. Un contributo dunque non meramente rappresentativo ma che diventi prassi solidale che parte dai poveri per colmare le attesi dei poveri. Come Giovanni XXIII comprese che la solidarietà mondiale dei popoli dopo il secondo conflitto mondiale era uno dei più significativi segni dei tempi, così Papa Francesco invita all’accoglienza di questi fratelli che provengono da lontano.

Lo stretto legame tra immigrazione ed ecumenismo

Così parlava Chenu della Chiesa in uscita: “Se la Chiesa oggi si definisce missionaria nel suo stesso essere, e non solo in una espressione geografica al di fuori delle proprie frontiere, ciò è in relazione diretta con l’ascesa dei nuovi popoli e la coscienza della diversità delle civiltà, le quali la esortano ad uscire dalla sua cristianità occidentale [..] La fraternità degli uomini e la loro comunità di destino sono delle provocazioni ad un ecumenismo svincolato dalla disputa e dalla crociata” (p. 37).

Queste parole profetiche del teologo domenicano ci permettono di guardare con uno sguardo più consapevole allo stretto legame che il papa istituisce tra immigrazione ed ecumenismo. Esemplare a tal proposito la lavanda dei piedi presso il centro d’accoglienza dei richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto giovedì santo: con semplici parole ha opposto l’eloquente gesto al vile attentato di Bruxelles dei giorni precedenti. “Siamo diversi, siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e vogliamo vivere in pace”. La visita lampo presso il campo profughi dell’isola greca di Lesbo il successivo16 aprile, insieme al Patriarca ecumenico Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Hieronymos II, è un forte richiamo ad un ecumenismo della solidarietà che scruta i segni dei tempi e ricerca la pace, quale primo bene messianico promesso.

Già nel 2013 si era rivolto con parole coraggiose parlando alla Chiesa stessa: “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono vostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti”. (Discorso in visita al Centro Astalli di Roma per il servizio ai rifugiati, 10 settembre 2013).

Monito accompagnato da un appello concreto per vivere a pieno il giubileo della misericordia da lui stesso indetto: “In prossimità del Giubileo della Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi. Un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma. Mi rivolgo ai miei fratelli Vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,40). Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi”. (Angelus, 6 settembre 2015).

Appello che avrà suscitato qualche perplessità e numerose “orecchie da mercante”, ma ha fatto comprendere la necessità che i segni dei tempi richiedono conversione. Ecclesia semper reformanda.

L’invito di Papa Francesco e del Concilio Vaticano II a scrutare i segni dei tempi, fa della Chiesa una fedele collaboratrice della società civile per il bene comune e la solidarietà tra i popoli.

Roberto Oliva

Laureato in Beni culturali presso l’Università della Calabria, studente di teologia presso la PFTIM-Catanzaro. Cura un blog su papaboys.org e collabora con Korazym.org e Il Sismografo. Per Infopinione redige la rubrica Dio nella città.

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