DIO NELLA CITTÀ

Alto Tirreno cosentino, terra di Frontiera

Spunti di riflessione post Operazione Frontiera. La mafia impoverisce il territorio economicamente e culturalmente. Dalla formazione dei giovani alla buona politica dipende il futuro di questo territorio.


“La mafia è una montagna di merda”.
[Peppino Impastato]

DIO NELLA CITTÀ – NUMERO 2, mercoledì 10 agosto 2016 – Alla gioia e alla soddisfazione per l’operazione Frontiera – quindi l’arresto del boss Franco Muto – segue la chiusura di una triste parentesi dell’Alto Tirreno cosentino. La notizia non ha recato particolare stupore, dal momento che la cosca cetrarese è notoriamente attiva sul territorio da decenni.

L’influenza del clan lungo tutta la costa tirrenica e non solo, ha fatto addirittura dire al procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri che il clan “controllava quasi il respiro in questo territorio”. Come ogni forma di criminalità organizzata, il clan Muto puntava la sua attenzione sul bene più prezioso del territorio: nel nostro caso il mare.

Mare che hanno sfruttato, gestendo illegalmente il commercio del prodotto ittico, mare che hanno impoverito togliendolo agli onesti pescatori e alla cittadinanza. Una costa così bella come la nostra è stata violentata e privatizzata da un manipolo di egoisti. Già questo basta per concludere nel dire che la mafia non serve a niente, che la mafia è una “montagna di merda”, come scriveva Peppino Impastato, che la mafia non arricchisce, ma impoverisce sempre di più. O se arricchisce, arricchisce pochi alla spalle di tanti.

Numerosi sono i segni dell’impoverimento di questo affascinante lembo di terra calabrese: massiccia emigrazione dei giovani verso mete e obiettivi talora sconosciuti, spaventoso tasso di disoccupazione, scarsa qualità dei servizi primari (sanità, mezzi di trasporto…) e mancato senso di fiducia e responsabilità nella partecipazione alla vita civile.

A tutto ciò si aggiunge un silenzioso compromesso della mafia con le istituzioni pubbliche e, talvolta, con parti di quelle giudiziarie. Un’istituzione pubblica che cede alle logiche del clan locale smarrisce il valore per cui esiste e conseguentemente la qualità dei servizi erogati. Penso alla drammatica questione della sanità sull’Alto Tirreno cosentino!

Tutto questo non si chiama forse impoverimento? Per non parlare poi del sottovalutato impoverimento culturale, radice di ogni malessere socio-politico. Dove per cultura si intende quel cammino formativo che permette di acquisire gli strumenti necessari per abitare da cittadino responsabile il territorio dove vivo e non da ospite o peggio ancora da suddito! Prendere coscienza di tutto questo significa voler bene alla nostra Calabria e non lasciare che si riduca a spiaggia per turisti estivi.

Peppino Impastato (foto: peppinoimpastato.com)

… e ora, a chi tocca ricostruire?

A molti adesso sorge la domanda: “Chi si occuperà di ricostruire le macerie?” Domanda dal sapore pilatesco di chi asserisce – forse inconsciamente – che si stava meglio quando si stava peggio.

In realtà occorre chiederci se la società attuale è disposta ad interrogarsi o a mettersi al lavoro. In questi lunghi decenni di cultura della sudditanza le varie agenzie educative e le istituzioni hanno formato ad uno spirito di cittadinanza attiva e di impegno socio-politico?

Proprio nella nostra Calabria occorre che le scuole, le associazioni e le amministrazioni pubbliche recuperino il valore sociale della cultura e tornare a trasmettere il desiderio di sporcarsi le mani nell’amministrazione dei nostri paesi da cittadini onesti. Dalla formazione dei giovani alla buona politica dipende il futuro di questo territorio.

Il fatto che il cittadino non si preoccupi della vita sociale della propria città in termini di responsabilità, impegno e lotta alla corruzione genera un vuoto che altri riempiranno. Mi piace riprendere le parole di una poesia di un grande prete, don Primo Mazzolari: “Ci impegniamo noi e non gli altri, unicamente noi e non gli altri, né chi sta in alto né chi sta in basso, né chi crede né chi non crede. Ci impegniamo senza pretendere che altri s’impegnino, con noi o per suo conto, come noi o in altro modo”.

La stessa Chiesa, per la sua azione capillare che svolge sul territorio e per il consenso di cui almeno in parte gode ancora, ha un compito tutto speciale nell’ambito dell’educazione delle coscienze. Una pastorale infatti che si accontenta di celebrare riti o conservare un determinato status quo, rischia di ridurre il Vangelo a semplice foglietto d’istruzioni per sapere come stare un po’ meglio con noi stessi, ma non comunica più la strada verso la vita piena cioè la fraternità.

Fraternità significa agire da uomini ai quali sta a cuore la sorte altrui, soprattutto la sorte di chi è escluso o provato. Se Gesù Cristo stesso ha donato la sua vita in riscatto per molti, occorre che i cristiani in Calabria vivano dando la vita per il riscatto di questa terra, periferica e disagiata proprio come la Palestina del tempo di Gesù e di oggi.

La Calabria dalla quale i giovani fuggono e invece dovrebbero cercare di rimanere per ascoltarne il grido disperato e sentirsi provocati ad una responsabilità più grande per il territorio che li ha visti crescere: della morte di una terra infatti siamo responsabili tutti.

Il procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Luberto, ha detto che adesso “occorre che Cetraro si svegli. Che anche le associazioni collaborino per la costruzione di una cooperativa che gestisca l’asta del pesce”. L’impegno di tutti che nasce dalle macerie della mafia genera lavoro, bellezza e dignità. Molti sono già pronti dietro l’angolo a raccogliere l’eredità di Muto, se noi ci rinchiudiamo dietro le nostre trincee. Che fine farà quel patrimonio stimato sette milioni di euro? Che fine fanno tutti i beni confiscati alla ‘ndrangheta in questa terra dove è diventato arduo costruire, investire, sognare e lavorare?

Sarebbe bello e doveroso restituire questi beni ai giovani più valorosi (laureati e non) per aiutarli a costruire il loro sogno occupazionale qui, nella loro Calabria, per la loro gente e per il futuro dei loro figli. Quanto bene potrebbe offrire la presenza di vasti appezzamenti di terreno dai quali ricavare aziende agricole e non solo. Oppure quanto bene potrebbe recare il nostro mare e il nostro splendido paesaggio se venissero valorizzati all’interno di un progetto lavorativo più ampio e articolato.

Tutto questo per i figli! La Calabria farà ancora figli, i quali non sentiranno più parlare di mafia né chiederanno per favore ciò che gli spetta per diritto, ma saranno il riscatto di una terra che ancora ha tanto da offrire al mondo intero.

Adesso segue la fase del riscatto, dell’impegno e della responsabilità.

Il porto di Cetraro
Roberto Oliva

Laureato in Beni culturali presso l’Università della Calabria, studente di teologia presso la PFTIM-Catanzaro. Cura un blog su papaboys.org e collabora con Korazym.org e Il Sismografo. Per Infopinione redige la rubrica Dio nella città.

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