Partito in udienza preliminare il processo riunito Frontiera – Cinque Lustri. Al centro del procedimento i reati contestati al Clan Muto di Cetraro e al suo boss, Franco Muto. Prime richieste di rito abbreviato. Costituzioni parte civile. Praia a Mare e Scalea sì, Cetraro ancora no.
CATANZARO – Si è aperto ieri mattina a Catanzaro dinanzi al Gup Carlo Saverio Ferrari il processo riunificato “Frontiera – Cinque Lustri”.
Il processo al boss Franco Muto. Le intimidazioni, le estorsioni, il pesce, i servizi di vigilanza e di lavanderia, gli amici imprenditori. Queste le accuse.
Ieri, alla soglia dei suoi 77 anni, ha affrontato l’ennesimo processo nei suoi confronti. Dinanzi al Gip di Catanzaro il procedimento Abruzzese+79 si è aperto con numeri da record: sono 80 gli indagati a vario titolo.
Presenti in aula i pubblici ministeri Bombardieri, Luberto e Prontera. In questa sede si decideranno i rinvii a giudizio, I non luogo a procedere e si completeranno le richieste di rito abbreviato.
A tal proposito l’abbreviato è stato chiesto ieri da Adolfo Foggetti, il collaboratore di giustizia, da Gennaro Brescia, il “ragioniere” dell’Eurofish, e da Giuseppe Montemurro. Per gli altri se ne parlerà alla prossima udienza.
Il maxi processo si dividerà quindi in due tronconi. Ieri le questioni preliminari sulle video conferenze con i detenuti e le costituzioni a giudizio delle parti offese. Ci sono i comuni di Scalea e Praia a Mare, la provincia di Cosenza e la Regione Calabria. Manca in questa sede invece il Comune di Cetraro, ma lo farà in seguito in quanto l’ente ha già dato incarico legale.
Prossima udienza in calendario il 13 giugno con la requisitoria del PM e le spontanee dichiarazioni di Franco Muto. Nutrito il collegio difensivo composto dagli avvocati Bruno, Mannarino, Sabato, Pizzimenti, Gasparri, Bello, Manna, Gaeta, Rotundo, Caldiero, Fonte.
Secondo le risultanze di entrambe le operazioni della Dda, Franco Muto era sempre presente, anche dal carcere per comandare gregari e momentanei reggenti della cosca. All’apice di un’organizzazione potente e articolata che non si è fermata di fronte a nulla. Nemmeno le ordinanze dei tribunali ne hanno limitato le capacità. Sono state eluse, raggirate con ingegno, per poi affidare le “aziende” a cosiddetti prestanome.
Il re del pesce ha resistito agli anni di carcere e alle condanne. Secondo l’accusa avrebbe messo il figlio Luigi per un periodo alla guida della cosca mentre alla moglie affidava gli affari del pescato. Sedeva ai tavoli delle consorterie criminali calabresi, lucane e campane. Lo faceva col piglio del boss. Ed è riuscito a mantenere per anni la pace tra i vari gruppi e sodalizi criminali sull’Alto Tirreno cosentino.
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