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Cedro di Santa Maria del Cedro, il prodotto Dop cresce e chiede maggiore spazio

SPECIALE INFOPINIONE. Dentro il mondo della coltivazione del Cedro di Santa Maria del Cedro. Come si produce, su quali mercati finisce, il legame con il mondo ebraico, le difficoltà di un lavoro… in ginocchio.

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La coltivazione del cedro di Calabria, a Santa Maria del Cedro e in altri centri confinanti e situati nella Riviera che ne porta il nome, chiede maggiore spazio. Dopo anni di lavoro, la promozione dell’agrume tipico, recentemente riconosciuto come prodotto D’origine protetta dalla Comunità Europea, inizia a conoscere una nuova fase qualificante.

Nei decenni, la storia del cedro ha conosciuto diverse fasi, intrecciandosi per motivi religiosi e commerciali con quella delle comunità ebraiche presenti in Italia e in tutto il mondo, ramificando in due comparti produttivi la sua coltivazione. Oggi, valuta le sue ambizioni di ulteriore crescita, scontrandosi con un problema comune a molti altri settori.

Santa Maria del Cedro: la casa dell’impresa è qui

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Cedro di Santa Maria del Cedro [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

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Storicamente si hanno tracce della coltivazione del cedro in ognuno dei comuni che oggi compongono la cosiddetta Riviera dei Cedri, ovvero la fascia costiera e collinare dell’Alto Tirreno cosentino, da Tortora a Belvedere Marittimo e, più giù fino a Cetraro.

Ma è a Santa Maria del Cedro che la coltivazione in cedriere si è concentrata, con la nascita di vere e proprie aziende agricole specializzate. Il comune costiero, confinante con Scalea e Grisolia, è sede di un museo e di un’accademia ad esso dedicati, oltre che del Consorzio del Cedro di Calabria, riconosciuto dalla Regione Calabria come organismo di diritto regionale. Coltivatori, trasformatori e commercianti del territorio si occupano dai primi anni del 2000 di promuovere la coltivazione del loro prodotto, denominato Cedro diamante di Santa Maria del Cedro, e anche gli aspetti culturali ad esso legati.

L’impegno del consorzio, sotto la guida del presidente Angelo Adduci, ha condotto a maggio di quest’anno ad ottenere l’iscrizione nel registro delle Denominazioni d’origine protette (Dop) tenuto dalla Commissione europea con il nome di “Cedro di Santa Maria del Cedro Dop”.

Sempre a Santa Maria del Cedro si è sviluppata la tecnica di coltivazione che oggi contraddistingue le cedriere moderne e che è considerata essenziale per conferire al frutto quelle caratteristiche uniche che hanno contribuito all’ottenimento della Dop.

Gli arbusti vengono tenuti bassi e coperti con reti plastiche di colore verde per proteggerli da alcuni agenti atmosferici come il vento e il sole, ma non da rugiada, brina e grandine come avveniva in passato con le coperture effettuate con canne che proteggevano quindi anche dalle gelate “umide”.

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Cedriera moderna [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

Accorgimenti, questi, che uniti a impianti di irrigazione moderni hanno contribuito a incrementare la produzione in termini di razionalizzazione degli spazi e a elevarne la qualità.

Ciò che invece non è cambiato di molto è il lavoro umano che è alla base della coltivazione. La mano dell’uomo (e come vedremo anche l’occhio, ndr) resta elemento imprescindibile.

Ancora una volta la storia del cedro, in larga parte dovuta all’opera di narrazione di Franco Galiano, intellettuale di Santa Maria del Cedro recentemente scomparso, descrive il lavoro del coltivatore di cedro come massacrante e pericoloso.

Rispetto ad oggi, le piante venivano coltivate più basse (1 metro e 20 centimetri a doppio filare, ndr), proprio per rendere più agevole la realizzazione delle coperture con canne, e i coltivatori erano costretti a lavorare gli arbusti in ginocchio se non sdraiati a terra. Il tutto correndo il rischio di ferirsi con le spine presenti sui rami dei cedri in caso di movimenti inconsulti dovuti alla stanchezza dettata dalla posizione.

“Le spine ci sono anche oggi, perciò il rischio resta. Tuttavia, ora le piante sono più alte: la lavorazione resta difficile, ma è possibile farla con più agio e meno rischi”, spiega un coltivatore di Santa Maria del Cedro le cui parole aiuteranno questa narrazione ad andare oltre ai dati storici e comprendere alcuni aspetti del tema legati alla fredda attualità e realtà economica della produzione.

Le piante di cedro presentano spine sul tronco e sui rami [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

Cedro di Calabria: il frutto sacro degli ebrei

Nei giorni scorsi, sono ripartiti da Santa Maria del Cedro i molti rabbini giunti in estate, precisamente a luglio, per la ricerca del frutto a loro sacro, il cedro appunto. In ognuna della comunità ebraiche sparse nel mondo, annualmente si celebra la Festa delle Capanne o Sukkot, una festa di pellegrinaggio che dura sette giorni (8 fuori da Israele, ndr) e che, nel suo cerimoniale, evoca il ricordo del periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico, dopo l’Esodo biblico dall’Egitto, diretto alla Terra di Israele (Eretz Yisrael, ndr) promessa da Dio ai discendenti di Abramo.

Perché il cedro? Nella rievocazione di quel periodo durante il quale gli ebrei attraversavano il deserto vivendo in capanne, La Torah ordina di realizzare una capanna senza fondamenta (Pellegrino è l’uomo sulla terra) e con tetto fatto di rami (per non interrompere il contatto con Dio) dove celebrare la festa con quattro specie di vegetali: rami di palma, mirto e salice a comporre il lulav, da tenere nella mano destra, un cedro (etrog) frutto dalla forma perfetta a simboleggiare quella perfezione alla quale aspirare per tendere alla divinità, da reggere nella sinistra. La Bibbia lo cita decine di volte, descrivendolo come “il frutto dell’albero più bello, il pomo proibito del Giardino dell’Eden“. La festa del Sukkot, quest’anno, si è celebrata dal 29 settembre all’8 ottobre.

La produzione del cedro a Santa Maria del Cedro: il passaggio dalla coltivazione tradizionale a quella industriale

In questa porzione della Calabria, nel corso del XX secolo la produzione era connotata dalla mediazione di commercianti non produttori, soprattutto del comune di Diamante, che facevano da tramite tra i coltivatori e le aziende della trasformazione e con i rabbini ebrei. Col passare degli anni, a partire dal Secondo dopoguerra, i coltivatori locali iniziano a curare i propri interessi commerciali in proprio, via via destituendo la figura del mediatore “forestiero” e giocando un ruolo principale con le destinazioni di mercato.

In seguito, la necessità di organizzazione spinse alla creazione di una cooperativa, la Tuvcat (Tutti uniti per la valorizzazione del cedro, ndr) promossa dall’allora parroco di Santa Maria del Cedro don Francesco Gatto, e dell’attuale consorzio. Il tutto allo scopo di strutturare i processi di trasformazione e, soprattutto, di strappare per i cedricoltori un prezzo al quintale adeguato alle aspettative di guadagno delle imprese agricole, stabilizzandolo dunque nel tempo e sottraendolo alle speculazioni dei grossisti.

Attualmente, il prezzo del cedro al chilo varia da 1,5 a 3 euro al chilogrammo. Tuttavia, come prodotto trasformato, soprattutto in candito per il settore della pasticceria, arriva sul mercato a circa 10 euro, a causa della lunga e complicata lavorazione necessaria. Tra salamoiatura e canditura si impiega infatti più di un anno.

C’è inoltre da tenere conto che quasi la totalità della produzione a uso alimentare viene immessa nel canale della trasformazione. Di per sé, infatti, il cedro non è un frutto apprezzato per il consumo alimentare, a differenza di altri agrumi come l’arancia o il mandarino. Il suo sapore eccessivamente aspro difficilmente incontra il gusto dei consumatori.

Secondo alcune persone del posto, gli spicchi di questo frutto particolare possono essere mangiati senza trasformazione, ma assumono un sapore accettabile solo dopo essere maturato per circa un anno sulla pianta.

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Il cedro oggi e le due vie commerciali

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Cedri [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

Secondo stime approssimative, oggi, in molte aziende della cedricoltura, soltanto il 25-30% della produzione viene effettuata per il settore alimentare, destinando la parte restante alla ben più remunerativa coltivazione dei cedri a scopo rituale, dunque per la vendita ai rabbini ebrei.

Quest’ultima ha delle differenze sostanziali con la prima, dettate dagli standard di qualità richiesti dagli acquirenti. Per la produzione dei cedri destinati alla Festa delle Capanne o Sukkot si impiegano infatti esclusivamente piante ottenute da talee, mentre quelle innestate non sono adatte perché considerate impure.

Da un punto di vista agricolo significa lavorare esemplari più delicati. Le talee non sviluppano adeguatamente il fittone, la radice principale della pianta, e soffrono in maniera più accentuata delle intemperie e del marciume del terreno. Hanno però il pregio di dare frutti di maggiore qualità, sempre in riferimento agli standard richiesti dai rabbini. Per raggiungerli è comunque necessario un lavoro certosino, meticoloso al limite del maniacale, e consistente soprattutto nell’eliminazione dei fiori superflui, lasciandone uno soltanto per ramo, e delle spine che potrebbero graffiare la buccia del cedro. Il resto è affidato a trattamenti volti a tenere alla larga i parassiti.

I frutti vengono raccolti, sempre tra agosto e settembre, quando sono molto lontani dalla maturazione, pesano tra i 120 e i 300 grammi e presentano un colore verde acceso (a maturazione un singolo cedro può arrivare a pesare anche più di 1 chilogrammo ed è di colore giallo).

Al momento della raccolta, i rabbini tornano nelle cedriere dove hanno osservato nei giorni precedenti l’andamento della produzione. Valutano sulla pianta i frutti migliori che vengono raccolti dai coltivatori, lasciando sui rami quelli che presentano imperfezioni. Infine, viene effettuata una ulteriore selezione al tavolo, analizzando ogni singolo frutto anche servendosi di lenti di ingrandimento e operando altri scarti.

Selezione dei cedri al tavolo [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

Ciò che più incide nella scelta è la qualità. Ovvero: forma e purezza del frutto. La forma deve essere dritta simmetrica, mentre la punta, a seconda delle correnti, può essere più appuntita e richiamare le cupole delle sinagoghe (comunità Lubatvich), o più arrotondata come la kippāh (Satmar).

Quanto alla purezza è essenziale che la buccia non presenti graffi, muffe e funghi che lo renderebbero non-kosher. Il cedro si valuta per “terzi”. Il primo terzo o punta, deve essere assolutamente pulito, il secondo terzo semplicemente pulito, la parte finale può presentare qualche lieve imperfezione. Viene spiegato che oggi c’è una maggiore elasticità, dovuta alla crescita della domanda.

I cedri, così scelti, vengono dunque acquistati, conservati con attenzione in apposite cassette anti urto, dotate di imbottiture in spugna, caricate poi su camion e trasportate in aeroporto, solitamente a Roma, per poi volare oltreoceano, destinazione New York. Da qui, i cedri vengono venduti alle comunità ebraiche sparse nel mondo. Quando saranno poi utilizzati per il rituale delle capanne, avranno ormai assunto il colore giallo della maturazione, ma mantenuta la forma perfetta così tanto ricercata dagli utilizzatori finali.

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Cedri nelle cassette anti urto [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

C’è più lavoro a produrli così – spiega un coltivatore –, ma è più conveniente”. Nella sua azienda pratica ai rabbini prezzi fissi: un singolo cedro prodotto per loro viene venduto a 15 euro, con piccole oscillazioni di anno in anno. Altrove i prezzi variano in base ad altri criteri e per un singolo pezzo, se ad esempio ritenuto di primissima qualità, si può incassare anche fino a 40 euro.

“Dipende dall’accordo che si ha con loro – spiega ancora il cedricoltore di Santa Maria del Cedro –, ma in linea generale questa produzione presenta vantaggi economici che coprono il maggiore lavoro che comporta rispetto a quella per il settore alimentare”. E lo fa capire con un esempio semplice: “Un solo cedro venduto agli ebrei può valere quanto 10 chilogrammi di prodotto per l’industria alimentare”. E ancora: “Anche se i rabbini scegliessero solo due cedri su 10 raccolti, scartando gli altri 8, il mio guadagno sarebbe maggiore rispetto allo stesso peso venduto al mercato alimentare”.

La produzione destinata al settore alimentare, come detto marginale, un tempo era ottenuta da piante autoradicate e innestate che garantivano maggiore resistenza e resa in termini di fruttificazione.

Attualmente, buona parte della produzione deriva da quanto non raccolto per gli ebrei e che, quindi, viene lasciato a crescere sulle piante da settembre in poi, mentre vanno avanti concimazioni e innaffiature per farli sviluppare il più possibile e puntare al peso, accantonando la qualità. Quest’ultima però non è affatto estranea: i trattamenti riservati ai frutti per gli ebrei, soprattutto in termini di difesa dai parassiti, si riverberano positivamente su quelli che saranno acquistati dai trasformatori.

I legami tra le due comunità

Negli anni, tutto quanto ruota attorno al cedro ha costituito anche occasione di incontro e confronto tra le confessioni religiose delle comunità locali ed ebraiche. Ne sono testimonianze, da ultimo, la “Marcia per la pace universale” e l’incontro in occasione della “Ventiquattresima Giornata Europea della cultura ebraica” svolte nell’ambito del Mediterraneo Cedro Festival 2023 a Santa Maria del Cedro. Eventi ai quali hanno partecipato, oltre a rappresentanti istituzionali, monsignor Stefano Rega, vescovo della diocesi San Marco Argentano-Scalea, Cesare Moscati, rabbino capo della comunità ebraica di Napoli, Roque Pugliese, referente per la Calabria della comunità ebraica di Napoli, Ahmed Berraou, imam della città di Cosenza e provincia, e referenti dell’Unione delle comunità ebraiche Italiane.

Ma il nesso principale tra questi due mondi resta smaccatamente di natura commerciale. I commercianti ebrei vengono in Riviera dei Cedri, comprano i frutti, li portano nella loro comunità di provenienza e li distribuiscono in tutto il mondo.

Nello svolgere queste fasi hanno contatti molto limitati con la comunità locale. Non che non li vogliano, ma la loro presenza sul territorio è motivata dal business, non hanno tempo e non ne perdono. Nessun ebreo si è mai trasferito a vivere in pianta stabile sul territorio: hanno esigenze particolari dettate dal loro credo, che li spinge a restare nelle proprie comunità.

Sono cordiali, ma hanno contatti stretti esclusivamente con i coltivatori e i raccoglitori che, spesso, sono componenti di un unico nucleo famigliare. Ed è così da sempre. Liberatisi dal giogo dei mediatori, cedricoltori ed ebrei stringono un legame forte. I rabbini vengono ospitati nelle case dei locali per tutto il tempo necessario, nelle stanze migliori e con ogni agio dell’abitazione. Sui muri di alcune vecchie case è ancora oggi possibile leggere dei numeri, segni della contrattazione del prezzo.

Di contro, in periodi di scarsa produzione, testano il rapporto di fedeltà commerciale instauratosi. Molti rabbini, viene raccontato, accettano di non acquistare altrove e spronano i coltivatori locali a crescere, suggerendo di investire nell’espansione degli appezzamenti coltivati, nel trasferimento generazionale delle conoscenze, nella creazione di vere e proprie aziende agricole, nella meccanizzazione del trasporto del prodotto, un tempo fatto esclusivamente a mano.

Sono ottimi uomini d’affari e considerano il contratto sacrosanto, non ne vengono mai meno. Lasciano aperta la possibilità a un minimo di flessibilità, ma ad ogni concessione corrisponde un tornaconto proporzionato. A quanto pare funziona bene: tutti ci guadagnano in questa applicazione pratica della negoziazione win-win.

“Descriverli non è semplice – spiega un cedricoltore –. In loro coesistono l’innata propensione agli affari e la forte consapevolezza del loro credo religioso. Quando sono qui si dedicano esclusivamente al lavoro e alla preghiera, osservando senza deroghe il sabato ebraico, quando non possono fare alcuna attività né chiedere che gli altri ne facciano per loro. Commerciano il cedro in tutto il mondo e sostengono che cresca in Riviera, in questa varietà perfetta, perché alla distruzione del Tempio un angelo ne ha piantato qui un ramo affinché non sparisse. Poi noi lo avremmo manipolato con gli innesti, rendendolo impuro”.

Il cedro nell’economia di oggi: è una vita “in ginocchio”

Cedri sulle piante [Questa foto è free use. Se la utilizzi per qualsiasi scopo cita la fonte. Credit: Infopinione.it]

Attualmente si potrebbe stimare che in un comune come Santa Maria del Cedro, circa 5mila abitanti, la coltivazione del cedro rappresenti il 30% dell’economia locale, considerando coltivatori, trasformatori e impiegati.

Gli operatori del settore sostengono che la coltivazione pur se redditizia rimanga comunque un lavoro duro, impegnativo, da fare in prima persona e possibilmente da tramandare alle nuove generazioni.

Una singola azienda potrebbe ambire a produrre esclusivamente per il mercato alimentare, con cedriere da piante innestate e una produzione superiore ai 1000 quintali di prodotto all’anno, ma è una scala non pensabile con l’attuale struttura delle aziende-famiglia presenti sul territorio.

Per questo regge il modello a talee, “dalle quali si ottengono in media solo 20-30 chilogrammi a pianta. È un modello un po’ da pazzi – spiega ancora il cedricoltore locale –, si lavora in ginocchio da maggio fino a settembre, poi si pota in vista della raccolta finale e si prosegue tutto l’anno con l’apposizione delle coperture, le concimazioni e così via fino a tornare… in ginocchio”.

Inoltre, come per tutte le coltivazioni, le imprese sono soggette agli imprevisti, quasi sempre dettati dalle condizioni climatiche: “Nel 2016-2017 – ricorda l’esperto cedricoltore – una forte gelata ha messo in ginocchio le nostre aziende. Abbiamo dovuto eliminare quasi tutte le piante, ripiantarne di nuove e aspettare 3 anni per i nuovi raccolti. Abbiamo ottenuto dei ristori dalla Regione Calabria, ma sono arrivati solo dopo 5 anni e non sono stati neanche esaustivi. Per fortuna – aggiunge – quasi tutte le imprese sono riuscite a sopravvivere”.

Cedro Santa Maria del Cedro: il settore e le sfide del presente

Attualmente il settore si misura con un altro problema, comune a tanti altri ambiti: la carenza di personale. Nonostante negli ultimi anni siano stati molti ad avviare questo genere di attività, soprattutto tra i più giovani, scarseggia la manodopera.

La maggior parte delle aziende oggi operanti, oltre agli imprenditori solitamente impegnati in prima persona, necessiterebbe di almeno due lavoratori fissi tutto l’anno e di un numero di stagionali via via crescente, fino a dieci impiegati nel periodo della raccolta, da maggio ad ottobre. Ma i conduttori di azienda sostengono che sia difficile reperire anche solo le due unità da assumere stabilmente.

Il tutto – sostengono in molti – a dispetto della prospettiva di assunzioni regolari, con assicurazione e contribuzione previdenziale. Secondo le stesse fonti, la manodopera che si riesce a reperire è sempre meno locale e sempre più caratterizzata dall’impiego di extracomunitari per quello che i coltivatori avvertono come un paradosso. La coltivazione del cedro è infatti così radicata nel tessuto sociale del posto da essere praticamente patrimonio comune in termini di saperi e conoscenze.

“Fino a poco tempo fa – confessa un cedricoltore – ce la prendevamo con il Reddito di cittadinanza, ma forse non è così, forse manca la volontà di affrontare un lavoro duro”.

Anche in proprio: “Chiunque, impegnandosi a dovere, e riuscendo a sopportare anche il periodo iniziale in cui non c’è produzione, può ricavare circa 20 mila euro lordi all’anno da 150 piante di cedro. Sono più di 1000 euro al mese. Sempre meglio che passare la giornata al bar”, conclude.

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About Andrea Polizzo

Giornalista professionista dal 2010 e blogger. Sin dal 2005 matura esperienze con testate regionali di carta stampata, on-line e televisive. Attualmente collabora con il mensile d'inchiesta ambientale Terre di Frontiera e con il network VicenzaPiù. Ideatore di blogtortora.it, caporedattore e coordinatore di www.infopinione.it.

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